Pino Tradigo
UN FILOSOFO LEGGE LA BIBBIA
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PRESENTAZIONE DEGLI ARGOMENTI TRATTATI
Tutti gli uomini scelgono un ideale come se fosse un dio, ma non tutti gli dei li soddisfano o li rendono felici. La bibbia mostra il volto di un Dio che ha molti aspetti, nelle sue più diverse e più sorprendenti espressioni e ciascuno di essi può raffigurare un ideale anche per l’uomo moderno. Si tratta di conoscerli prima di rifiutarli. In ogni caso persino il loro rifiuto non annullerà la sete inestinguibile dell’uomo di un ideale senza tramonto, con il quale confrontarsi, anche per poter capire meglio se stesso.
Dall’introduzione
L’argomento trattato può somigliare ad un commento del testo biblico, più propriamente si tratta di una lettura per acquisire un aumento di conoscenze razionali, tanto che si è cercato di evitare una interpretazione soggettiva, per attenersi strettamente a ciò che si sarebbe potuto ‹imparare› dalla sapienza degli antichi.
Lo spunto del testo è occasionale: l’autore ha avuto la fortuna di leggere i libri di Chiara Lubich e ne ha tratto una sua interpretazione filosofica che lo ha aiutato a capire meglio il messaggio della bibbia che gli è apparsa nuova. Da qui il desiderio di comunicarlo nei limiti delle sue possibilità.
Gli argomenti della Bibbia
Una Bibbia senza prevenzioni
La Bibbia tratta del rapporto di Dio con gli uomini. Ammette, quindi, l’esistenza di Dio che per alcuni filosofi rimane una supposizione non dimostrata. Non solo questo, la Bibbia si presenta ancora come una comunicazione di Dio agli uomini. Anche in questo caso nemmeno tutti quei filosofi che credono nell’esistenza di Dio ammettono che egli abbia rivolto agli uomini un discorso diretto o almeno per bocca dei profeti.
Come può un filosofo leggere la Bibbia senza prevenzioni culturali, senza nemmeno quelle che prevedono l’ipotesi dell’esistenza di Dio?
Di per sé anche un filosofo che non ammette che la Bibbia sia una scrittura dettata da Dio, non ha alcun dubbio che sia estesa dagli uomini che l’hanno scritta. Un filosofo quindi può leggerla per informarsi di come e in che senso Dio era compreso dagli uomini che hanno tramandato il loro pensiero e, di conseguenza, venire a conoscenza di quelle caratteristiche e prerogative che, per esempio, Abramo, Giacobbe e Mosè attribuivano al loro Dio, così come la Bibbia le descrive.
In pratica, ammettiamo che questi famosi personaggi avessero un modo di considerare Dio con la ragione, allora vediamo quali sono le loro ‹ragioni›, se poi aumenteranno la nostra filosofia, non sarà stato tempo perso averle esaminate, ma anche nel caso non abbiano apportato conoscenze nuove, avremo avuto almeno la possibilità di confrontarle con le nostre, senza per questo esserci inimicati coloro che non hanno avuto le nostre intenzioni. Anzi, se la comunicazione biblica riguarda un persona che è Dio, allora conosceremo le sue prerogative, se invece parla di un uomo come se fosse dio, potremo almeno conoscere un giudizio ed una stima dell’uomo da loro descritto probabilmente diversa da quella accettata comunemente, al punto di essere confusa con quella di un dio. Del resto non sarebbe un male cercare la perfezione di un uomo esaminando come gli antichi la sognavano e come anche noi potremmo quasi immaginarcela come un ideale, pur difficile da raggiungere.
Con questa premessa che ammette tutto e non esclude niente, che ammette perfino l’esistenza di Dio e la fede di chi legge la Bibbia, mi pare anche di aver evitato il rischio di considerare un discorso rivoltomi da un mio simile, pur vissuto in tempi lontani e quasi prima della storia, una pura fantasia senza alcun significato, ancora prima di averlo capito.
In altre parole, si tratta di una lettura senza preconcetti e con il massimo delle buone intenzioni, il resto verrà da sé, come viene da sé la costruzione di ogni conoscenza di cose nuove che abbia queste premesse.
SOMMARIO
Con le etichette del contenuto dei vari capitoli.
ABRAMO
Un uomo senza terra, senza amici, senza Dio.
Vocazione incarico disegno dell'uomo.
GIACOBBE
Luomo è un ‹animale-partecipe›.
GIUSEPPE
Il problema dell'autorità
MOSÉ
Dal singolo uomo nel deserto abituale del nostro mmondo alla costruzione di una società fino alla costituzione di una nazione.
SAMUELE
L'‹uomo persona› amabile amata e scelta per amare e per sceglere.
DAVIDE
Il problema della libertà.
SALOMONE
Nascita e tramonto di un ideale.
GIOBBE
Il problema del male.
GESÚ
La filosofia del Nazareno.
IL PROBLEMA DELL'AUTORITÀ
RIFLESSIONI SU UN PROBLEMA COMUNE
Saggio del modo di esporre gli argomenti trattati nel testo.
Ho scelto un problema filosofico attuale per corredarlo di due parafasi/riflessioni
come esempio del modo di illustrare i temi trattare in questo libro.
Io ora non vorrei fermarmi su questi punti che si possono leggere nel testo riportato nel blog paginario medibibbia, ma svilupparli, come potrebbe fare da sé lo stesso lettore moderno che conosce la filosofia, compresa quella dei Vangeli, così come il Nazareno l'ha illustrato con le sue teorie prima di tutto perché le ha vissute, ovverosia presentando dati di fatto per spiegarle e, poi, confermandole con dati di ragione.
Gesù maestro che lava i piedi dei suoi discepoli è un quadro che non si può definire secondario, proprio perché introduce la spiegazione pratica di cosa egli intendeva per autorità. Il dato di ragione che la spiega consiste nel cosiddetto ‹comandamento nuovo› che Gesù promulga poco prima di salire il Calvario: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34).
Questo comandamento è autoritario e, nello stesso tempo, autorevole.
È autoritario nelle intenzioni di chi lo ha promulgato perché non lascia dubbi né fraintendimenti e ancora perché è riconosciuto dai suoi discepoli senza discussioni e senza richieste di chiarimenti che sono già contenute in quel «come io vi ho amato».
Soprattutto poi è autorevole perché coincide con il dato di fato di un legislatore e un maestro che aveva già lavato i piedi agli apostoli, dichiarandosi così loro servo. Un fatto del genere mostra una autorità che è amore prima ancora di essere potestà e ha una validità intrinseca e connaturale con lo stesso comando che la enuncia. In altre parole, tra autorità e autorevolezza non c'è conseguenza, ma coincidenza. La virtù dell'amore che unisce chi comanda e chi obbedisce giustifica lo spirito di qualsiasi legge giusta, quasi senza ulteriori spiegazioni ragionevoli, perchè riposa su un assolutismo e una democrazia che sono contemporanei conseguenti e sempre tra loro consenzienti
Fin qui abbiamo considerato l'autorità quasi più di un uomo che non di Dio, ma proprio perché Gesù è uomo e insieme Dio ha un valore ben maggiore.
Egli che aveva detto «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt. 22, 21), si fece obbediente alle autorità del tempo che lo hanno condannato, senza accennare alla loro mancanza di competenza nei suoi riguardi, ma nemmeno senza evitare di fornire loro le prove della sua innocenza. In altre parole Gesù non ha voluto diminuire né l'autorità di chi lo stava giudicando né la sua dignità, pur aumentando in questo modo la sua responsabilità. Davanti al tribunale delle autorità Ebraiche cita in sua difesa le dichiarazioni rilasciate sempre pubblicamente e mai per costruire un potere occulto. Anche oggi esistono giudizi che assolvono i poteri occulti per mancanza di testimoni e magari condannano i giusti tacitando le testimonianze contrarie alla sentenza. Davanti poi alle autorità Romane Gesù responsabilizza il pretore Pilato che tentennava, proprio perchè non ascoltava la verità né quella che egli stesso aveva intravisto pur dubitando, né quella che non voleva sentire da Gesù. Il condannato Gesù non ha bagatellizzato l'autorità, al contrario, ha voluto salvarla. Già in questo ambito si deve ammettere che l'autorità che Gesù ha rivelato è per lo meno straordinaria, ma egli ne ha istituita anche una del tutto nuova perché ha portato sulla terra la stessa autorità di Dio che non ha paragoni, non tanto perchè è onnipotente e giustissima, ma perché è giustificante.
Gesù non ha diminuito l'onnipotenza della giustizia divina, ma la giustizia che egli ha portato sulla terra consite nel togliere i peccati, prima ancora di codannare il peccatore. In questo modo Gesù ha ribaltato il concetto di giustizia come veniva praticata non solo ai suoi tempi e nemmeno diversamente oggi e, ancora una volta facendo precedere i fatti alle spiegazioni.
Gesù sulla croce, uomo che nuore come tutti i mortali, si sente abbandonato da Dio come se egli non fosse Dio e, invece, risponde a questa cosiddetta mancanza di amore da parte del Padre con un Amore che ristabilisce l'unità in seno alla trinità, perché dona il suo amore al Padre senza aspettarsi di ricevere quello di lui, anzi come se il Padre non ne avesse più per il Figlio, Con un parlare assurdo ed esagerato, ma non inconsistente, in un certo senso il Figlio ha redento anche il Padre, o meglio ha salvato l'amore che egli, come Figlio, aveva per lui in rappresentanza di tutti gli uomini che invece fino allora lo avevano richiesto a Dio ma mai glielo rendevano senza la speranza di un compenso.
In questo senso l'amore di Gesù è più grande e più infinito dell'amore del Padre, dimostrando così di possedere un ‹amore divino› cioè di essere egli stesso Dio anche se fosse mancato un Dio nel Padre dal quale si sentiva abbandonato.
È questa l'autorità di Gesù che ristabilisce l'unità con il Padre e per partecipazione degli uomini con Dio che possono corrispondono con il loro amore all'amore stesso del Figlio per il Padre.
A questo punto per finire con qualcosa di più piano e di più semplice su questo argomento riporto una favoletta che io scrissi tempo fa, tra l'altro connessa con un fatto realmente accaduto, che vale un'intera spiegazione aggiunta intitolata ‹Re principe e servo› (le chiavi del castello, paginario teatro,blogspot.com).
ALTRE RIFLESSIONI SULL'AUTORITÀ
I limiti dell'obbedienza
Quando l'obbedienza diventa disobbedienza.
L'obbedienza è il mezzo adatto e insostituibile per esercitare la virtù della fede. Come tutti i mezzi è ordinata allo scopo e, come tutti gli scopi invaldano i mezzi inadeguati così anche l'pbbedienza perde la sua validità quanto non è ordinata al fine.
Da questo assunto ne viene che se l'obbedienza è ordinata alla fede, bisogna anche sottolineare che la fede è ordinata alla autorità.
In pratica chi comanda non è la fede, ma l'Unità (scritta con l'iniziale maiuscola).
In questo senso un comando contrario all'Unità deve essere accantonato. In pratica, deve essere convalidato con delle ulteriori informazioni e adattato con delle ulteriori possibilità, oppure diventa invalido, oppure obsoleto e, in ogni caso, decade da sè.
Quindi come e quando obbedire?
1) Obbedire all'autorità sempre, subito, con gioia in ordine al consolidamento della fiducia.
2) Tenendo presente che la fiducia non è ancora unità, ma che è il mezzo necessario per costruire la fede.
3) La fede è possibile solamente quando chiaramente e manifestamente (expressis verbis) è ordinata all'Unità.
4) Il comando di per sé ha valore perché si basa su una virtù e non su una ragione, ma la prima unità possibile presupppone una natura e una ragione sia in chi comanda sia in chi obbedisce. In questo senso un comando contro natura è un attentato ala proprietà naturale di chi lo riceve e di chi lo emette.
5) Allo stesso modo un comando che sembra irrazionale esige delle spiegazioni aggiunte documentabili e chiare non tanto per essere valido, ma per essere eseguibile. Senza chiarimenti diventa provvisorio in ordine alla costruzione della fiducia, rimane invalido in ordine alla conferma della fede.
6) Da queste premesse è subito evidente che qualsiasi comando emesso in mala fede, o eseguito per ottenere favoritismi, oppure emesso da una autorità occulta è automaticamente nullo in sé, come è un nutrimento nullo la terra al posto del pane, e quindi non costruisce l'Unità, anzi la descostruisce mettendo in pericolo perfino la socialità tra gli uomini.
7) In questo caso, se il comando invalido è abituale deve essere chiaramente rifiutata quella parvenza di autorità che si è arrogata la facoltà di proclamarlo, se è occasionale deve essere messa in chiaro l'occasione che lo ha determinato.
8) Bisogna sempre tener presente che sia la persona in autorità. sia il sottoposto nel costruire insieme e nel ratificare l'Unità diventano corresponsabili sia del proprio contributo sia, in qualche modo, dell'unità costruita e delle conseguenze derivanti. Non è mai ammissibile che una corresponsabilità diventi invece una correità.
UN FILOSOFO LEGGE LA BIBBIA
Un essay del libro
Ho scelto il capitolo intitolato Giuseppe come esempio degli argomenti trattati nel testo, prché parla di un personaggio noto e tocca due argomenti importanti. Il primo riguarda la filosofia della storia, il secondo accenna al problema dell'autorità che con le elucidazioni tratte dai vangeli acquista un successivo completamento.
GIUSEPPE
Tempi normali …Tra i resoconti dei fatti che riguardano Giacobbe e quelli di Giuseppe la Bibbia sembra porre un intermezzo senza pene né affanni. Non mancano i drammi e le commedie, ma sono pressappoco uguali a quelli di tutti i giorni che si vedono in televisione e, invece, indicano uno straordinario che sta nascosto proprio in questo supposto vivere ordinario, che non sempre è sinonimo di ordine, e che sembra aver la funzione di preparare un passaggio dal consueto all’eccezionale. I due tempi si succedono inavvertitamente per chi rifiuta di ammettere la morte del primo e che, per paura, non spera nella nascita del secondo. Sono due tempi che portano caratteristiche talmente diverse, che sembrano nascondere la loro successione logica e, di fatto, non trovano tanto una spiegazione nelle ragioni dei protagonisti, nemmeno solamente in quelle mozioni spirituali che riposano nella coscienza di ogni uomo e che si chiamano virtù, ma in un qualcosa che non è una teoria e nemmeno in un qualcuno che non è una immaginazione. Questo processo per diventare comprensibile abbisogna di una purezza dell’affettività oltre che di una maggiore chiarezza della razionalità. Abitualmente l’uomo ragionevole cerca riscontri altrettanto ragionevoli nelle sue memorie per gettare le premesse dei suoi progetti ma, alle volte, le sue ragioni sono ancora poco chiare perché i suoi affetti non sono del tutto puri. L’affettività apre gli orizzonti alla ragione, ma se è sporca ed annebbiata, alimenta un giudizio confuso, mentre se è pura splende come il sole che illumina un panorama storico vasto ed attraente. Le impurità delle affezioni sono il fabulismo del bambino, l’erotismo del giovane e la possessione dell’adulto. È difficile trovare un’aria pura e non inquinata anche ai nostri giorni nelle nostre città e non era facile in quel tempo che passava tra quello di Giacobbe e di Giuseppe, quando sembrava di casa l’erotismo tra la gente comune e gli stessi figli dei patriarchi. A questo proposito basta citare i nomi di Sichem, che rapì Dina, o di Onam, precursore del controllo delle nascite, e lo stesso comportamento della nuora di Giuda che si è fatta una volta prostituta del suocero per difendere i suoi diritti.
A questo punto bisogna spendere due parole sull’erotismo.
Che cosa si intende per erotismo?
Ogni conoscenza è il risultato di un evento pratico e sensibile. L’uomo non conosce niente che non sia effettivo e mai lo conosce completamente, ma solamente per quella parte di effettività che ha sperimentato nell’oggetto conosciuto. Ripetendomi: la concretezza pratica della conoscenza sta tutta nell’accorgersi con i sensi di una data realtà e nel rilevare gli effetti che essa produce. Se quel che mangiamo non fosse ‹gustoso› e non servisse a mantenerci in forze, noi non lo avremmo mai conosciuto perché non avrebbe destato il nostro interesse. Per esempio, io non mangio la terra, ma quando non scelgo la terra, bensì il pane, è perché ho avvertito il gusto diverso delle due realtà e gli effetti diversi che esse conseguono, dopo aver sperimentato la soddisfazione di trovarmi in forze avendo mangiato il pane. Ora, il modo più semplice per non riconoscere l’effettività (il finalismo) di una realtà sta nel limitare la conoscenza al puro sensibile. Con la sensibilità noi acquistiamo una conoscenza soggettiva: il pane è gustoso per quel soggetto che lo mangia indipendentemente dal fatto che serve per nutrirlo, e non per provocare una indigestione. Dalla conoscenza sensibile alla conoscenza degli effetti depurati dalla soddisfazione puramente sensibile esiste un passaggio che è quello da una conoscenza soggettiva – il proprio gusto – ad una conoscenza di un altro tipo che è reale, ovverosia che considera e capisce ciò che dipende dall’oggetto conosciuto, per quel qualcosa che esso produce, e non per il gusto che il soggetto prova. La conoscenza, in questo modo, cambia e, da soggettiva, diventa obiettiva o, almeno, oggettuale, perché si libera del sensibile per concentrarsi sull’effettivo (che produce effetti). Quando un soggetto non sa a che cosa serve o che cosa produce una data realtà, ma lo ricerca e lo mette in discussione, è già sulla strada di aumentare le sue conoscenze a differenza di chi le restringe scegliendo di proposito il solo piacere di vederlo e di provarlo. Questo scegliere esclusivo e limitato al sensibile, che è un prediligere – ovverosia un amare prima ancor del conoscere – è dominato da una affettività erotica e in questo consiste l’erotismo, almeno in senso lato. È sempre l’oggetto che stimola la sensibilità e quindi la conoscenza non è esclusivamente soggettiva, ma è sempre sfalsata da quel poco di soggettivo che rimane e che rischia, così, di produrre errori. Se il piacere della vista di un fiore soddisfa la soggettività sensibile, anche quella di un fiore artificiale non manca di una bellezza soddisfacente, ma se non ci si accorge che non può produrre un seme non si capirà nemmeno la differenza tra ornamento e fiore propriamente detto, che ha una bellezza diversa anche quando diventa fatiscente per produrre un frutto. Accorgersi della differenza tra un ornamento ed un fiore è una conoscenza in più rispetto al riconoscere solamente il loro aspetto simile, mentre credere che un fiore artificiale sia un fiore vero è un errore, ovverosia una conoscenza in meno, perché è limitata alla soggettività strumento di conoscenza, ma non corroborata e comprovata da una effettività obiettiva.
Questa spiegazione un po’ pedante serve per capire cosa sia l’erotismo: l’erotismo in senso lato è quel fenomeno soggettivo che limita la conoscenza al piacere che essa produce, con esclusione dell’effettività reale dell’oggetto conosciuto. In pratica consiste in una sostituzione dell’apprezzamento del mezzo per conoscere ed in una dimenticanza degli scopi della stessa conoscenza. La sensibilità è un mezzo che svela i fini, mentre il solo piacere sensibile è un mezzo per nascondere i fini della realtà.
Ma l’erotismo ha ancora un effetto più deleterio. Se impedisse solamente la conoscenza oggettuale sarebbe poco male: se io non so che il pane è nutriente, ma lo mangio perché mi piace, non impedisco al pane di nutrirmi, ma solamente alla mia intelligenza di saperlo e, quel che non so oggi lo posso sapere domani, l’erotismo invece mi mette nelle condizioni di fare indigestione e di arrivare a credere che il pane è dannoso ed indigesto e non utile e nutriente. In altre parole l’erotismo non nasconde solamente la verità, ma produce errori, infatti, se io mangio solamente il pane che mi piace, finisco con limitare il mio cibo alle sole torte e rischiare l’obesità con tutti i danni che comporta. In pratica, e non solo in teoria, se io non voglio – si tratta di affettività – conoscere lo scopo nutritivo del pane, ma solo quello allettante – si tratta sempre di affettività – non potrò mai uscire dalla mia soggettività ed aumentare così le mie conoscenze. A questo punto si possono introdurre nel discorso tanti se e altrettanti ma, tuttavia quel che conta è ammettere il fenomeno ed accorgersi che l’erotismo ottunde la conoscenza, ognuno poi potrà sincerarsi dei danni che comporta a spese sue.
… sogni straordinari
Per tornare al nostro argomento di fondo è evidente che in un mondo dove domina l’erotismo le cosiddette buone ragioni sono un non senso e, se prevale il gusto ed il piacere, alla fin fine ci si dispone a conquistarlo persino con la violenza e non certamente con la convinzione. In questo caso, non sono certamente le persone pacifiche a farsi strada, perché risultano senza ‹grinta› come se vivessero nel mondo dei sogni e delle illusioni. E Giuseppe, proprio con i suoi sogni rappresenta una sorta di anomalia in un mondo del genere, quasi un personaggio a sorpresa che capita sulla scena della vita nel momento meno opportuno. Giuseppe è il figlio di Giacobbe natogli in tarda età; è il suo prediletto, come lo sono spesso i più piccoli in famiglia e, forse proprio come chi è stato sempre amato, crede che tutti gli vogliano bene, senza sospetti e senza precauzioni. Già questo preannunciava la sua sincerità, che si accompagna con il suo carattere amabile e, nello stesso tempo, la sua amabilità irritante.
Eppure Giuseppe racconta con tutta libertà: "Ascoltatemi, perché ho fatto un sogno. Eravamo in campagna a raccogliere il grano e legavamo i covoni, ebbene il mio covone rimase diritto, mentre tutti i vostri si accasciarono al suolo". Giuseppe non si ferma qui e racconta ancora un altro sogno: " Il sole, la luna e dodici stelle si sono fermate in cielo per inchinarsi davanti a me".
Pazienza i covoni dei fratelli che si accasciano al suolo, pazienza le dodici stelle, ma anche il sole e la luna rappresentano forse per Giuseppe anche il padre e la madre che devono inchinarsi davanti all’ultimo nato?
Non c’è da stupirsi se i fratelli si ribellano al sentire queste ‹favole› che sembrano pretenziose. Anche il padre rimane sorpreso e rimprovera il figlio ma, perché lo ama, non lo condanna e, nelle sue parole inopinate, cerca un significato nascosto al posto di trovare un’incomprensione manifesta.
La conoscenza è sempre di fatti e di ragioni che alle volte sono più istanze misteriose che non esplicazioni lampanti, sia per chi non ama, sia per chi ama, ma l’amore è sempre uno spiraglio aperto alla comprensione, mentre l’odio e l’opposizione chiudono la porta alla scienza razionale ed al comportamento morale. Se tutto fosse facilmente comprensibile non ci sarebbero né difficoltà, né inimicizie, e tutto scorrerebbe come l’olio, ma mancherebbe ogni progresso ed ogni miglioramento.
Nel nostro caso il risultato di questo dramma è la condanna del visionario.
Giuseppe, incaricato dal padre, va in cerca dei fratelli alle prese con i greggi, e loro ancora lontano lo vedono arrivare. È l’occasione propizia per mettere definitivamente a tacere il visionario. In un primo tempo pensano di sopprimerlo senza remore, ma poi si risolvono di allontanarlo per sempre vendendolo come schiavo ai mercanti di una carovana di passaggio, diretta in terre lontane. Al padre diranno che è stato sbranato da una belva, mostrandogli la sua tunica intrisa di sangue.
I mercanti invece raggiungono l’Egitto e vendono Giuseppe a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie. (Genesi. 37).
La condanna di Giuseppe equivale alla schiavitù in terra straniera, mentre per i Giuseppe-simili di tutti i tempi equivale alla alienazione. L’uomo che non è amato è un alienato, alle volte, proprio perché egli vorrebbe amare, ma non sa come e perché. Giuseppe e ogni suo simile non deve preoccuparsi; la sua stessa storia di alienato gli insegnerà come condursi e lo preparerà a tradurre in concreto il suo amore. In quest’orizzonte si capisce subito come lo sfondo opaco dei tempi in cui vive Giuseppe sia stato utilissimo per mettere in risalto la sua figura in tutta la sua luminosità. Tra i vari eventi che la illustrano uno serve di esempio e di spiegazione di tutto il suo comportamento, anche se è il meno strepitoso, ed è il più significativo, anche se potrebbe parere il meno eloquente, non tanto perché mette in evidenza le sue caratteristiche naturali, ma perché lascia intravedere le doti del suo spirito, che si sono rafforzate con un esercizio trito e quotidiano delle sue virtù.
Così chi ha esercitato le virtù, non ha nemmeno tralasciato di far esperienza con la ragione. Il risultato per lo schiavo Giuseppe è che il padrone Potifar diventa schiavo del suo schiavo perché gli affida amministrazione e poteri ritirandosi in una passività che annoia persino sua moglie. La moglie poi per non annoiarsi a sua volta vuole godere dell’ammirazione di Giuseppe per fargli vedere che lei vale di più del suo padrone.
È la storia di chi cerca surrogati a un amore che non ama e che vuole possedere l’affettività di chi invece ama perché non si vende e non vende il suo amore. Giuseppe era stato condannato dai fratelli perché mirava a prospettive superiori, ora è odiato da una donna perché agiva senza compromessi e, lei lo accusa di violenza al marito. In pratica un Giuseppe troppo semplicione e poco accomodante che valica le porte della prigione dopo essersi aperte quelle della schiavitù in terra straniera (Genesi. 39).
Un evento come questo è un esempio chiaro di quale sia il rimedio del ‹fenomeno-erotismo› fin qui preso in considerazione. Giuseppe riconosce che il piacere sessuale è efficiente ai fini di costruire una famiglia, mentre l’erotismo lo avrebbe indotto a costruire un imbroglio. Egli amava, ovverosia voleva, una conoscenza logica con il risultato di conseguire una pratica morale adeguata. La scelta poi che aveva fatto una volta e che ripeteva ogni volta diventava per lui una abitudine. Con queste premesse la successiva liberazione di Giuseppe dalla prigione e dalla sua alienazione non è più un fatto fortuito e irrazionale, ma trova le sue spiegazioni che risiedono nelle stesse mozioni della sua affettività e nelle ragioni del suo modo di esistere, non senza una rivelazione aggiunta in quei sogni non solo suoi ma che, seppur di altri, egli è capace di comprendere ed interpretare.
In prigione trova due compagni di sventura ed egli che con i sogni ha imparato a parlare e con le prove, il lavoro e le fatiche ha imparato ad ascoltare, sente i loro discorsi e le loro lamentele e interpreta i loro sogni per aiutarli a sperare. Uno dei due viene presto liberato dalla prigione e ritorna al servizio del faraone e l’altro viene liberato con la morte per poter tornare al trono del Re dei re (Genesi. 40).
In questo frangente il faraone fa un sogno inesplicabile che è rimasto famoso: sette vacche grasse salgono la sponda del Nilo e subito dopo sette vacche magre salgono a loro volta dal Nilo per divorare subito quelle grasse.
Il Re Sole senza far sogni prevedeva il diluvio dopo la sua morte, il faraone , anch’egli abbastanza preoccupato, pativa forse per incubi notturni. Il primo non ascoltò chi gli prospettava i rimedi, il secondo ascoltò un coppiere che gli disse di aver conosciuto un Ebreo in prigione che sapeva interpretare i sogni e che gli aveva predetto la sua liberazione.
Il faraone fa venire subito Giuseppe al suo cospetto e gli chiede consiglio e il prigioniero si rivela all’altezza della comprensione dei segni dei tempi. Quando gli egiziani vivevano al tempo delle vacche grasse si sarebbero dati alle gozzoviglie, egli invece a lungo provato dal suo Dio ha imparato ad apprezzare i suoi doni con cura e con riconoscenza per premunirsi invece quando verrà il tempo delle vacche magre.
L’uomo del Dio di Giuseppe
Giuseppe liberato dalla prigione e dalla schiavitù ha assunto una posizione di primato non tanto davanti al faraone , ma nella responsabilità dell’incarico che gli affida il Signore a favore dei suoi fratelli e, tutto questo, perché ha rafforzato le sue virtù. Tra la figura del Dio di Abramo nella sua potenza e quello di Giacobbe nella partecipazione, e ora quello di Giuseppe nella predilezione, c’è tutta una crescita della rivelazione che aveva bisogno di una lunga storia di esperienza e di dedizione per essere compresa; ma non solo, tra l’uomo Abramo e l’uomo Giuseppe c’è una crescita corrispondente che permetteva un colloquio sempre più approfondito da parte di Dio, sempre più chiaro e purificato da parte dell’uomo, per diventare realtà. Giuseppe non conosce solamente il Dio delle promesse, neppure solo quello della collaborazione, ma conosce, per così dire le stesse ragioni di Dio che si manifestano nella filosofia della storia. Occorre sottolineare questo processo che si basava su un esercizio ripetuto delle virtù, ovverosia effettivo ed affettivo, che permetteva a Giuseppe di possedere un aumento di conoscenza continuo che, nel suo caso, arrivava persino a comprendere la filosofia della storia, come abbiamo già detto.
Come si possono conoscere le varie cose per la loro effettività pratica così Giuseppe conosceva la storia per la sua effettività. Non si tratta di una conseguenza che dipende dai singoli uomini che ‹fanno storia› ma, insieme a loro, da tante altre circostanze che richiedono una causa efficiente superiore. Come il pane è nutriente e non solo gustoso così la storia è effettiva e non solo adatta a solleticare la curiosità degli studiosi e le pretese dei governanti, come il pane è effettivo perché è capace di produrre effetti, così la storia è effettiva perché c’è chi le ha donato la capacità di produrre effetti. L’uomo da solo non è capace di fare storia e le storie dell’uomo si dimenticano presto. È giocoforza ammettere l’esistenza di un ‹motore› con delle capacità superiori a quelle dell’uomo. Si tratta del Dio di Giuseppe che ama gli uomini e non che solamente trovava piacere ad amarli. La filosofia della storia è tutta qui: se si toglie la realtà di Dio la storia è senza filosofia. Con questo non si vuol dire che l’uomo sia senza filosofia e senza ragione, ma si deve riconoscere che alle volte possiede una ragione affetta da erotismo, ovverosia una ragione mancante o, per parlar più chiaro, che manca di ragione.
Dopo queste considerazioni appare evidente che la figura di Giuseppe è un ‹esemplare› di cosa sia un uomo capace di amare, perché ha ricevuto e accolto questa virtù infusa. L’amore come tutte le virtù ha due risvolti: la giustizia che riconosce il ‹proprio› personale e la magnanimità che è ovviamente senza egoismo e senza compiacimento. Essa consiste in una sorta di consegna delle proprie caratteristiche e della propria effettività fatta dal donatore alla persona conosciuta che diventa così una persona amata e amica, che non è più serva perché conosce le intenzioni e le ragioni del suo interlocutore. Quando questa virtù viene riconosciuta dall’uomo come un dono fattogli da Dio, egli si sente, per così dire, indiato e dimentica la sua umanità. Egli vede prima i disegni di Dio e si dimentica, perché non esistono più, delle proprie ragioni e di quelle prospettive che aveva una volta senza amore. Allora capisce i suoi sogni e gli altri capiscono che non aveva sognato, ma che aveva ricevuto una ‹rivelazione›. In un certo modo il Dio di Giuseppe non è più quello della promessa, ma della rivelazione e l’uomo del Dio di Giuseppe non è più il suo fedele, ma è già il suo amico. Quando si parla di un Dio misterioso e superiore ad ogni conoscenza non si fraintende una verità, ma si rischia di nascondere un’amicizia che può illuminare la stessa incomprensione. L’uomo-Giuseppe è già il precursore di un nuovo mondo di fratelli che si amano perché si sentono amati da un unico Padre e non solamente di concittadini con uguali diritti perché per natura appartenenti di una medesima discendenza.
Quando Giuseppe vede arrivare i suoi fratelli oppressi dalla carestia non può più nascondere la sua commozione e, mandati via gli estranei, scoppia in pianto. Quando un uomo liberato dalla morte di ogni possesso egoistico si affaccia alla conoscenza di una fratellanza effettiva si trova senza volerlo in paradiso, accolto da un Padre, dimentico ormai di un passato dove le stesse colpe erano quasi necessarie per aumentare la reciproca comprensione, l’intesa comune, e la gioia dell’amicizia fraterna. In questo quadro che per Giuseppe e per i suoi fratelli costituisce una promessa e una rivelazione prende consistenza e continua la costruzione della stessa promessa non ancora compiuta completamente e forse mai raggiunta definitivamente su questa terra durante questa nostra storia di allora e di oggi (Genesi. 45)
Si tratta sempre di una rivelazione di Dio amore, ma non è un amore umano, bensì così ‹divino› che riesce ad aumentare la razionalità dell’uomo affinché egli possa capire l’altrimenti incomprensibile razionalità di Dio.
Il Dio dell’uomo Giuseppe
Che differenza c’è tra il Dio di Giacobbe e il Dio di Giuseppe?
Lo indicano i loro sogni.
Il Signore appare in sogno a Giacobbe e gli rinnova le promesse fatte ai suoi padri. Riafferma così la sua alleanza e la sua predilezione, mentre a Giuseppe gli rivela un futuro diverso, e in un modo diverso, per mezzo di un’immagine così che egli lo possa capire, ma anche comunicare ai suoi familiari in un modo accessibile e non del tutto fuori del normale. Giuseppe potrà dire sempre in figura: «Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me» (Genesi. 37), perché il Signore non solo lo aveva eletto, ma lo aveva anche messo in autorità nei riguardi dei quei suoi simili che erano gli stessi familiari. L’autorità dei patriarchi in seno alla loro tribù non era mai stata messa in discussione ma, in questo caso, con Giuseppe, acquista un altro significato perché è sancita da Dio stesso che la costituisce direttamente in un modo nuovo e personale. Giuseppe lo annuncia in tutta semplicità: non è un esaltato e neppure si appropria di una superiorità presuntuosa, ma nemmeno mette in dubbio la sua posizione. I sogni che manda Dio non sono delle infatuazioni, perché cambiano la persona che li riceve e la investono di una dignità e di una responsabilità che lei stessa è obbligata a riconoscere con semplicità e non a costruire artificiosamente, al punto che si meraviglia che gli altri non lo vogliano capire.
In ogni caso, con l’elezione di Giuseppe è connesso il problema dell’autorità.
Il racconto biblico ne mette in evidenza due aspetti: il primo è quello dei suoi fondamenti teorici, il secondo di come nella pratica si viene affermando tra i sudditi.
Perché un’autorità possa affermarsi non basta che sia costituita da chi ne ha il potere, nemmeno se è Dio. In un modo simile un padre può lasciare in eredità l’azienda al figlio nominandolo, di fatto, capo del personale e direttore dell’impresa, ma tra i progetti del padre e le realizzazioni del figlio c’è sempre una differenza. Per quanto ambiziosi possano essere i presupposti teorici del padre e malgrado il figlio voglia realizzarli nel miglior dei modi egli ha sempre bisogno di tempo e di esperienza per metterli in pratica. La riuscita, poi, non solo dipende dalle sue capacità, ma anche dalle circostanze e, tra di esse, la più imprevedibile è la stessa obbedienza dei sottoposti. A sua volta il riconoscimento della stessa autorità è sempre un problema cognitivo e quindi dipende dalla maturità e dallo sviluppo di questa facoltà dei singoli sottoposti e dalla capacità esplicativa di chi rende comprensibili ed eseguibili i comandi, quasi di più della stessa sua capacità teorica e della sua competenza di dettarli. Da tutte queste condizioni così imprevedibili da parte di questo o quell’altro uomo per quanto superiore come se fosse un ‹quasi dio›, si comprende subito come la scelta della persona autorevole avrebbe bisogno di essere designata da un Dio vero, che conoscesse la coscienza degli uomini e le condizioni dei tempi. Ma quel che è più importante a proposito di costituzione è il fatto che chi comanda, si impone a delle ‹creature di questo Dio› prima ancora che a dei comuni mortali che sono suoi pari ed è quindi egli rimane responsabile verso Dio prima ancora di esserlo verso i sudditi.
In ogni caso questi fondamenti teorici dell’autorità si rendono evidenti solo dopo che essa si è affermata nella pratica, perché una autorità per quanto proclamata perfino da un ordine superiore, come potrebbe essere Dio, non per questo viene obbedita automaticamente. Giuseppe che crede di aver ricevuto questo conferimento si espone ad una sorta di riconoscimento e si sottopone ad un simile approvazione. Per questo, prima annuncia la sua designazione, e abbiamo visto con quali risultati. Poi deve dimostrare di essere all’altezza del mandato e, a questo fine, si fa le ossa obbedendo come schiavo e non andando a scuola di maestri o di teorie umane. Successivamente deve imporsi per trasmettere autoritariamente le opportune disposizioni, così come lo esigono i tempi e il favore di chi lo ha designato e, anche in questo caso, deve essere accorto e abbastanza diplomatico per non metter in gioco il suo potere; Giuseppe architetta tutta una storia per costringere i fratelli a mettersi sotto la sua ‹protezione› li accusa, prove alla mano, di essere ladri e spie che hanno bisogno della sua indulgenza. In questo senso è quasi obbligato a farlo come chi non può cambiare a parer suo i disegni dell’autorità che ha ricevuto secondo l’opportunità del momento, e lo stesso utile degli interessati. I dipendenti a loro volta pur obbligati a riconoscere e ad approvare le disposizioni della persona in autorità, sono sudditi della propria coscienza prima ancora di essere sottoposti a qualsiasi autorità ma, proprio perché i suoi comandi, non sono contrari alla loro natura ed alla loro coscienza, ne troveranno una conferma di fatto, prima ancora di prestare un riconoscimento di diritto. I fratelli di Giuseppe che si ribellano alla sua autorità, lo possono fare solamente calpestando la natura umana per mezzo di un delitto comune, prima escogitando il mezzo per sopprimerlo, poi estraniandolo con la schiavitù. Da tutto questa esposizione il potere di chi è in autorità non appare poi così potente come ci si aspetterebbe o come si immaginerebbe comunemente.
Ma non abbiamo ancora detto in che cosa consiste l’autorità.
Ci sono tre tipi di autorità. C’è un’autorità che ha il suo fondamento nella stessa natura umana. La definizione di uomo è di essere ‹animale partecipe› e quindi dipende da una società; questo dipendere che invece è, appunto, un partecipare esige una responsabilità e quindi un’autorità personale. C’è un’altra affermazione dell’autorità nello stesso esistere razionale dell’uomo. Poiché l’uomo ha un esistere che si esprime razionalmente come una scelta proporzionata e adeguata della realtà, deve anche avere il potere e l’autorità di iniziarla e di condurla a termine. Infine c’è un’autorità propria dello spirito dell’uomo, infatti, poiché l’uomo è effettivo, ovverosia è indirizzato a raggiungere un fine deve avere anche una libertà corrispondente a questa sua volontà. Ogni uomo esercita queste autorità, e si sente investito e autorizzato ad esercitarle, anche quando non sa nemmeno che esistono. Abitualmente si identifica l’autorità con la persona che la rappresenta nella società degli uomini e non l’autorità degli uomini come fondamento della società, mentre un rappresentante è solamente un ‹facente funzione di›; per questo si arriva a chiedere ad uno che non può, ma che comanda, quello che, invece, ciascuno deve chiedere a se stesso perché lo può, anche se non comanda. In pratica l’uomo deve obbedire alla sua natura, volere le sue virtù ed esistere la sua vita senza superiori e senza maestri, ma così facendo, partecipa, ovverosia costruisce società, in altre parole costruisce conoscenze e ama, in pratica, costruisce unità che ha più valore dello stesso accordo e del consenso.
Quel che appare dal resoconto della vita di Giuseppe è l’approvazione di Dio stesso di quell’autorità che è propria dell’‹uomo-Giuseppe›. Questa affermazione sembra sorprendente e contraria ai dati concreti. Effettivamente, i fratelli di Giuseppe e lo stesso padre, anzi, in figura, la stessa madre sua che invece è già defunta, si inchinano davanti a lui, ma il padre non perde la sua autorità di capo-tribù e alla sua morte è egli che designa i suoi successori e non Giuseppe. Come mai esistono due autorità, ambedue riconosciute da Dio, ambedue di uguale valore, con gli stessi sudditi e non in opposizione tra loro? Questo dipende dal fatto che rappresentano due tipi di autorità diverse. Giacobbe esprime quella naturale e Giuseppe quella spirituale; la prima autorità regge la società come corpo sociale, la seconda la ‹provvede› o la edifica nella libertà. Giuseppe non si pone sopra i fratelli e il padre, ma li ‹serve› da superiore e da responsabile. Tutte le autorità servono, sia quella dispositiva, sia quella di competenza, ma l’autorità che si manifesta come servizio più di ogni altra è quella spirituale.
Resta ancora da definire i rapporti tra quella autorità che abbiamo descritto come propria di ciascun uomo perché sua e personale, e quell’altra autorità che invece è propria di quell’uomo che rappresenta ciascun uomo e la società degli uomini.
In che cosa consiste la società?
Il termine società è analogo a quello di conoscenza (Bekanntschaft, acquaintance), o meglio è un tipo di conoscenza tra quelle realtà che sono gli stessi uomini che la compongono. Come il rapporto di un uomo con il materiale ferroso genera la conoscenza della metallurgia, così il rapporto di un uomo con un altro uomo genera la società. Ora la conoscenza è un riconoscimento di una realtà nuova non completo e non esauriente, ma concreto, ovverosia corrispondente ed adeguato: in una parola, conoscenza e verità sono sinonimi. Anche la società è una realtà concreta e vera, e ciò che è vero non è disordinato né confuso, ovverosia, ha una espressione unitaria che lo presenta e lo descrive. Questa espressione unitaria della società si chiama autorità. L’autorità definisce quello che è già definito nella natura dell’uomo sociale, riconosce ed esplicita quello che ogni uomo insieme agli altri uomini vive e, ancora, ordina quello che l’esercizio delle virtù di ogni persona ha ordinato. Se si sottovaluta l’uomo, prescindendo dalle sue distinzioni di natura, esistere e spirito e dalla sua unità di persona non ci può essere nessuna autorità perché non ci può nemmeno essere una società qualsiasi, ma solamente una convivenza di animali non del tutto ragionevoli. Se questo appare evidente in quel tipo di autorità naturale di carattere dispositivo si capisce meglio con quell’altra che esprime l’ordine dello spirito umano. È l'autorità tipica che appare evidente nelle istituzioni ‹spirituali› a cominciare da quelle culturali e per arrivare a quelle religione. Ed è anche l’autorità così ben rappresentata di Giuseppe e altrettanto distinta da quella di suo padre. È incaricata di servire amando e lascia capire per analogia che anche l’autorità di Giacobbe, quella naturale, è incaricata di servire disponendo. In altre parole ogni autorità è un servizio e chi è autorevole è un ‹incaricato› di servire. Ovviamente la Bibbia non è un trattato di filosofia della società, ma un’esposizione di fatti e ogni fatto dice di più di qualsiasi filosofia, ma ogni filosofia non è di meno dei fatti stessi perché li spiega.
All’inizio di tutto questo lungo discorso avevamo posto come titolo: ‹il Dio dell’uomo-Giuseppe›, ma a questo punto può sembrare che noi ci siamo allontanati dall’argomento prefisso e, invece, abbiamo parlato di una autorità sancita da Dio di tipo nuovo, quella che serve amando.
Il Dio di Giuseppe ha tutta l’autorità su ogni autorità e la sua è servizio perché è amore. l’investitura dell’autorità di Giuseppe da parte di Dio non è solamente la rivelazione che ogni persona scelta in autorità da Dio è un ‹incaricato› posto a servire, ma è soprattutto una rivelazione di Dio stesso come colui che ama. Si tratta di una rivelazione implicita, ma Giuseppe la manifesta con le parole e soprattutto con i fatti. Per poterla capire più chiaramente saranno necessarie altre spiegazioni ed altri esempi non ci resta che continuare a leggere la storia dell’uomo e di Dio che la Bibbia ci ha narrato fin qui e che ci promette di illustrare con ulteriori approfondimenti.
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